C'era una volta il ritiro!
In questi giorni la Serie A al completo ha traslocato, la macchina per fare soldi è ben oliata, il “turismo calcistico” è diventato seriale, più dell’aria salubre poté il merchandising. Ossigenare i muscoli? Sì, anche il portafoglio dei tifosi, però.
Non si dice più ritiro, bensì pre-season, ma pensa te. Magliette, amichevoli, visioni sudaticce di campioni e/o onesti mestieranti: tutto ha un prezzo, la fede calcistica - si sa - è griffata. Il campo di allenamento è diventato il “Village”: baracchine ufficiali dei club, sessioni di autografi di cinque minuti e vietato sgarrare, serate a tema, concerti in piazza, ragazze ponpon, ricchi premi e cotillons.
Ci guadagnano tutti. Il Comune con l’indotto locale (ristoranti, alberghi, gite: è stato calcolato che le presenze nelle località dove si allenano le grandi squadre aumentano mediamente del 40%), la Regione con la pubblicità, i club perché vengono pagati: chiusa l’ultima porta dell’ultimo albergo nell’ultimo giorno di ritiro, la serie A porta a casa milioni ogni estate, suddivisi per lignaggio e bacino d’utenza.
Eppure: c’è stato un tempo in cui tutto - persino il calcio - non era ostaggio di ritmi frenetici e business, ma si concedeva il tempo della noia e del sogno, da coltivare entrambi un po’ alla volta, senza fretta. A rileggerla oggi la mappa dei ritiri estivi del bel calcio che fu - parliamo degli anni ’70 e ’80 - sta lì a indicarci luoghi fantastici ormai sepolti nella memoria, atolli della nostalgia, amene località di montagna che hanno vissuto giorni di una gloria oggi impolverata.
Roccaraso, Vipiteno, Buochs, Norcia, Nevegal oggi sono post-it che - pur resistendo in qualche angolo della memoria - hanno fatto la fine di Atlantide, l’isola leggendaria scomparsa senza lasciare alcuna traccia, se non quella - rintracciabile alla voce nostalgia - di chi quella sera d’agosto vide Albertosi e Bigon passeggiare in piazza a Vipiteno. «C’erano una volta i ritiri di una volta...», raccontano le favole estive dei ritiri calcistici di ieri.
Duravano tanto, tre settimane di media. Si partiva tardi, attorno al 20 luglio. Le amichevoli - con l’enfasi commovente di quei tempi in bianco e nero - venivano definite «di lusso», i paesi - da Calalzo di Cadore ad Abbadia San Salvatore - erano «pittoreschi» come da catalogo, i giocatori dopo l’allenamento si consegnavano inermi a infinite partite di tressette, nel tempo libero ciondolavano nelle hall degli alberghi, posavano per foto-ricordo con i camerieri, firmavano autografi su block notes a quadretti di bambini con il maglioncino legato al girovita, si sollazzavano con gli immancabili gavettoni. Nessun selfie li immortalava, da lì all’eternità. Il gossip non esisteva, prevaleva la chiacchiera da bar. Persino le scappatelle notturne - riviste con la prospettiva di oggi - sembrano ammantate di ruspante ingenuità.
Trent’anni fa, anno di grazia 1987, la Juventus di Marchesi era in ritiro a Buochs, Svizzera tedesca, trecento chilometri da Torino, occupate venti stanze tra singole e doppie, per una spesa di 40 milioni di lire.
L’Avvocato - nelle cronache del tempo - non arrivava, ma “piombava” in ritiro. Piombare era un verbo che si addiceva ai vip.
Il Napoli del primo Maradona - era il 1984 - si radunò a Castel del Piano, provincia di Grosseto, base l’Hotel Impero, ai piedi del Monte Amiata, all’epoca residenza delle famiglie-bene di Firenze e Siena, poi dismesso, abbandonato al suo destino, infine ristrutturato. Il Guerin Sportivo raccontò la storia di tale Carlo Alviso, supertifoso di Fuorigrotta, che giurava di essere stato il primo napoletano al mondo a baciare il piede sinistro del Pibe de Oro: si era felici con poco.
Ruscelli, fiumi, fiumiciattoli, sentieri nel bosco, prati verdi e verdi pascoli facevano parte della toponomastica del bravo tifoso in gita nel week end. I cronisti che seguivano la Lazio di Giordano e Manfredonia in ritiro a Gubbio negli anni ’80 scrivevano di «una città mistica trafitta dalla violenta luce del sole». Il Bologna nel luglio del 1979 salì ad Asiago, in pullman: strade intasate, traffico bloccato, coda al casello, la carovana ci mise una vita ad arrivare sull’altopiano, il mediano Castronaro invecchiò di un paio d’anni. Nei tardi ’70, a Vipiteno, un Gianni Rivera già avviato verso il tramonto della carriera strinse un accordo, da dirigente in pectore, con una ditta di palloni, ma erano troppo leggeri e vennero accantonati dopo un paio di partite.
Oggi la Juve va in tournée in Messico e Usa, il Milan vola per un mordi e fuggi in Cina, la Roma farà tappa a casa Pallotta, l’Inter atterrerà a Singapore, nel giardino dei padroni: è lo sponsor a dettare legge.
Una volta scegliere la Svizzera per il ritiro estivo era considerata un vezzo esotico. Nel 2017 va di moda il ritiro spezzato. Più location, più introiti. Il Bologna ha cominciato in Sardegna, si è spostato sull’Alpe di Siusi e chiuderà a Kitzbuhel, in Austria, dove già ci sono Genoa e Udinese.
Geograficamente, il ritiro anni ’70 e ’80, copriva anche buona parte dell’Italia centrale; oggi è gettonassimo il Nord Italia, metà serie A (10 squadre su 20) va in Trentino Alto Adige, Trento batte Bolzano 6-4.
L’unica squadra a scegliere il Sud è il Crotone, che lavorerà a Moccone, sulla Sila: si chiama «senso di appartenenza». Di quei ritiri vintage, di quelle canicole estive, di quei sogni di montagna restano oggi i ricordi sbiaditi di chi c’era e qualche foto ingiallita accanto al frigo dei gelati, lì di quel bar prima della curva, dove Vinazzani e Bertoni facevano tappa dopo l’allenamento; restano infine - impilati accanto alle inevitabili «gentilezza, ospitalità, prezzi nella media»